Once upon a time…

Voglio raccontarvi una storia, una storia senza lieto fine.

Sul finire degli anni ’80 si diffusero anche in Italia i “rampichini”, così si chiamavano allora le mountain-bike. Fu un’esplosione nucleare nell’ammuffito panorama ciclistico nazionale. Nel giro di qualche anno, gente che non aveva mai pedalato una cyclette in camera da letto, sudava arrampicando impervi sentieri e intere famiglie dotate di caschetto in polistirolo colorato popolavano allegramente gli argini domenicali dei fiumi.

Erano bici piuttosto semplici, robuste (almeno quelle buone), contraddistinte dall’avere tre corone anteriori (quella da 22 denti era il cosiddetto frullino che permetteva di salire a passo d’uomo), ruote artigliate da 26 pollici e freni “cantilever” un po’ più potenti dei tradizionali. Questi “cancelli” con le ruote erano nati in California, dove alcuni giovanotti, poi diventati molto famosi (mai sentito parlare di Gary Fisher?), modificarono delle vecchie bici Schwinn dei postini locali. Questi improvvisati ciclisti risalivano i sentieri della Mt. Tamalpais (ecco perché gli serviva la tripla corona!), dall’altro lato del Golden Gate, per poi buttarsi giù in improvvisate gare di discesa fuoristrada. Era nato il Downhill.

Comprai la mia prima MTB usata nel 1989 e non era molto diversa da quei primi cancelli di ferro californiani. Neanche a dirlo, poco dopo ero già in cima a un monte con il casco in testa pronto a correre contro il cronometro fino in fondo. Conto alla rovescia, l’adrenalina che sale… tre, due, uno, via! Giù a capofitto cercando in qualche modo di non essere disarcionato dall’impazzito destriero. Poco dopo c’erano così tanti piloti al via di queste gare che, a un certo punto, si fsono rese necessarie le qualifiche il sabato per la gara della domenica. C’erano gare locali, regionali, nazionali, organizzate dalla Federazione Ciclistica, da UISP e UDACE. Andare alle gare era una festa, nascevano interi villaggi intorno al traguardo, tende, furgoni, famiglie, meccanici, camper, gente che saltava sui furgoni navetta per risalire ancora una volta per l’ultima prova del giorno, fuochi, polenta, musica, scherzi, amici di mezzo stivale che si ritrovavano in posti bellissimi, piloti che si prestavano i pezzi rotti durante le discese. E’ stato davvero un bellissimo periodo.

Poi, per correre più veloci, arrivarono i primi ammortizzatori anteriori e i telai in alluminio 7020. Dovetti vendere la bici da strada per comprare una forcella ammortizzata ed effettivamente era un bel sollievo per le povere braccia! Di lì a poco apparvero anche gli ammortizzatori posteriori, così le velocità aumentarono di brutto e si cominciò a saltare e percorrere sentieri davvero accidentati. Questa velocità però metteva in crisi il vecchio impianto frenante, ed ecco saltar fuori prima i V-brake e poi i freni a disco idraulici e poi, per resistere alle spaventose sollecitazioni, i telai monoscocca in carbonio, titanio, plutonio e poi e poi… Con una di queste astronavi a pedali, sul finire degli anni ’90 in occasione di una gara internazionale sulle montagne bellunesi (Nevegal) ho stabilito il mio record di velocità toccando i 113 km/h lungo un tratto che correva su una pista da sci. Peccato non essere riuscito a fare la curva successiva che inseriva il tracciato nel bosco (ma questa è un’altra storia).

Sul finire della mio periodo agonistico, nel 2002, il solo telaio di una bici DH costava circa 3.000 euro e una bici completa almeno il doppio. Le piste di gara erano diventate sempre più difficili e di conseguenza le bici più complesse, le velocità maggiori, la preparazione dei piloti più impegnativa, così le piste potevano essere avere maggiore dislivello, ma per questo si dovette aumentare la resistenza e la specializzazione delle bici che somigliavano sempre più a moto da cross…

E così via, in un meccanismo perverso nel quale il divertimento era sempre meno, il costo sempre più alto e la partecipazione dei “piloti per hobby” sempre minore.

Sapete come è andata a finire? Oggi questa meravigliosa e divertente disciplina non esiste più. Esiste la nicchia della Red Bull Race, ma è per pochi ed è un’altra cosa.

Vi ricorda qualcosa? Pensiamoci bene.

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