Esperienze di un fotografo pilota

Catturato dal temporale

Umberto Bocca è un fotografo professionista e pilota di deltamotore. Oggi si diverte con un minimale, ma fino a qualche tempo fa scorrazzava per la Lomellina con un biposto/503, macchina con la quale gli è capitata questa notevole avventura che (grazie Umberto) ha gentilmente condiviso. Leggete, vi garantisco che vi sembrerà di essere con lui!

Nel tardo pomeriggio di un sabato di marzo la Lomellina è stata colpita da un violento temporale: un evento decisamente insolito per la stagione e per le modalità con cui si è verificato. Venti fortissimi, pioggia battente, grandine e centinaia di fulmini hanno colpito una vasta area. È stata una tempesta con i fiocchi.
E io ci ho volato in mezzo.
Un marzo insolitamente piovoso ha quasi di colpo generato una splendida giornata di sole. Ma di venerdì si lavora e tutte le speranze di poter volare sono slittate al giorno dopo. Oggi, però, il tempo non è più così bello; nonostante un vento non forte, ma fastidioso, la visibilità è scarsa a causa della grande foschia. Ma squarci di tenue azzurro prevalgono su nuvole alte e sfilacciate, allontanando ogni preoccupazione. Del resto, come sempre, prima del decollo ho controllato le previsioni meteo, i dati sui venti per la mia zona, persino il radar sulle fulminazioni… E tutto è tranquillo. Solo per la notte è previsto un fronte freddo, che arriverà qui fra una decina di ore.
Così ho deciso di andare fino alla confluenza del Ticino con il Po per fotografare i danni della piena di due giorni or sono, che ha imposto la chiusura del ponte della Becca a causa del cedimento di un pilone. Pensavo di incontrare turbolenze, invece ho solo il vento in faccia, più robusto di quanto mi aspettassi, che mi rallenta non poco. Per arrivare alla mia meta ci metto un’ora e un quarto! Del resto il mio vecchio deltaplano è decisamente lento e, con un’ala grande e monosuperficie, è molto rallentato anche dalle minime brezze.
Se le immagini che prendo dei danni al ponte sono insignificanti, a causa della foschia, alcuni scatti del Po in controluce, con le acque che si stanno ritirando dalle aree golenali, sono incantevoli. Il grande fiume si presenta come un serpentone argenteo che fende la pianura, fino alle montagne sullo sfondo ed è sovrastato da una nuvolaglia suggestiva. Per avere scorci interessanti salgo fino a trecento metri: col grandangolo i risultati sono buoni, ma il teleobiettivo rende inquadrature migliori.
Quando finalmente eseguo la virata di 180 gradi, per iniziare il rientro, l’aiuto del vento è molto più consistente del previsto. All’andata il GPS mi dava una velocità, rispetto al suolo, intorno a 45 chilometri orari. Adesso è come se avessi innestato il turbo: il display indica velocità prossime ai 90 all’ora. Sono ben contento di rientrare velocemente perché non c’è molto gusto a volare in un cielo lattiginoso, con una visibilità inferiore ai tre-quattrocento metri.
Sorvolando il campo volo di Zerbolò, vedo quel che mi sembra l’ultraleggero di un amico che vorrei salutare. L’atterraggio è abbastanza movimentato: sotto i cento metri di quota si balla per turbolenze e piccole raffiche di vento, per fortuna frontale, aiutano a complicare la manovra. Come sempre al “Quadrifoglio” sono gentili e ospitali. E mentre bevo un caffè -ci voleva, nonostante la tuta invernale ho anche freddo- la mia attenzione è attratta da due scritte, incorniciate al muro della clubhouse. La prima dice qualcosa del tipo “meglio stare a terra con la voglia di volare, che in volo col desiderio di essere a terra”. L’altra sostiene: “qualsiasi atterraggio dal quale te ne vai camminando è da considerare riuscito”. Sono battute divertenti che, purtroppo, fra poco verificherò di persona. Ma questo, ovviamente, non lo so ancora.
Chiacchiero con gli altri piloti: nessuno è preoccupato del tempo. Siamo solo un po’ stizziti per il vento, ma ormai il pomeriggio sta per finire. Decollo e il cielo, sia da terra che in volo, è esattamente come prima: insulso.
Con il vento che mi spinge così, in nemmeno una ventina di minuti dovrei raggiungere la mia pista. Sul “cruscotto” non ho strumentazione, a parte l’altimetro e il contagiri del motore, ma nella tuta ho un GPS tascabile da trekking che mi conferma una velocità rispetto al suolo superiore ai 90 all’ora. In un attimo sono a cinque minuti da casa; decido di fare ancora qualche fotografia, più che altro per ingannare il tempo: scatto un’immagine di quel poco che si vede di una risaia che sto sorvolando e… in meno di un minuto tutto cambia. E’ come si mi avessero tirato di colpo il freno a mano e lo percepisco chiaramente, senza controllare nessuno strumento. Il vento è girato e ora ce l’ho di fronte. Fortissimo. E la pesante foschia, nella quale ho volato tutto il giorno, si è dissolta istantaneamente, lasciandomi davanti a un panorama di nuvole temporalesche scurissime, fra le quali ci sono squarci arancioni del tramonto, che si stanno rapidamente chiudendo. È il fronte freddo atteso fra una dozzina di ore.
La nuvolaglia è bassa, potente e si avvicina con una rapidità preoccupante. L’aria è tersa, la visibilità eccezionale, anche se la luminosità sta cadendo vistosamente per le nuvole nerissime che si accavallano e sovrappongono in modo tumultuoso. A terra si accendono i fari delle auto, le insegne commerciali e le luci dei lampioni mentre, in cielo, compaiono i primi lampi. Ancora lontani.
Recrimino: «Proprio adesso? Ma non poteva aspettare altri dieci minuti! Però, forse, ce la posso ancora fare». Venti fortissimi mi sballottano. Devo decidere qualcosa e in fretta! Anche tirando barra per aumentare la velocità e col motore alla massima potenza, non riesco a contrastare la forza del vento. Devo avere una andatura davvero bassa e vengo trascinato verso Ovest, lontano dalla mia meta. Penso di effettuare una virata di 180 gradi per scappare davanti al temporale verso il campo da cui arrivo. Ma con la coda dell’occhio posso vedere la nuvolaglia che mi ha già superato, in quella direzione, e non sono proprio sicuro che una virata completa -con un’ala del mio tipo e con folate di questa forza- sia la cosa più saggia da fare.
Sono nei pasticci.
Persino sui duecento metri di quota il vento è a raffiche. Quando è troppo forte tento di contrastarlo col motore, ma inevitabilmente guadagno quota; nelle pause lotto per scendere, col motore al minimo, vincendo il timore che si spenga. In un paio di occasioni, tra una raffica e l’altra, riesco persino a scattare delle fotografie. Ho davanti uno spettacolo che toglie il fiato: tutto l’orizzonte è coperto da nembi color piombo, solcati da lampi ramificati e molto persistenti. Nei rari spazi in cui filtra ancora un sole sanguigno si vedono virghe potenti: «Chissà che diluvio, là sotto -penso- e fra un po’ comincerà anche qui». Ma fra quanto tempo? E cosa mi conviene fare? Intanto i tuoni diventano sempre più vicini. L’unica speranza, visto che il vento mi sta spingendo più o meno in quella direzione, è riuscire a rifugiarmi all’aviosuperficie Leonardo da Vinci. È in fase di smantellamento, ma la pista dovrebbe essere ancora agibile.
Però le folate cambiano di continuo direzione. In alcuni momenti quasi arrestano il mio volo, ma subito dopo mi riprendono imponendo accelerazioni feroci. Devo lottare in modo molto muscoloso con la barra per tenere stabile il mezzo e soprattutto conservare un po’ di velocità. Porto il motore al minimo dei giri, perché devo scendere, devo assolutamente perdere quota.
Nei pressi dei temporali -ricordo dal manuale di volo- ci sono correnti ascensionali potenti: non ho neppure il coraggio di pensare cosa potrebbe accadere se ci finissi dentro. Il pericolo, molto reale, è quello di essere trascinato in alto dalle forti raffiche. In pochi minuti l’updraft di un temporale di queste dimensioni può portare un deltaplano fino alle quote più alte della troposfera, dove c’è una temperatura intorno ai cinquanta gradi sotto zero e l’ossigeno per respirare è quasi inesistente. È già accaduto che deltaplanisti siano stati risucchiati da un temporale e “risputati” senza vita a centinaia di chilometri di distanza.
Oltre alle raffiche di vento trovo turbolenze, fortunatamente incostanti. Quando mi prendono in una semiala mi sballottano come uno strofinaccio. Ogni tanto il delta si impenna con una energia che mi impedisce di tenere la barra al petto. E lo stomaco che scende verso i talloni mi comunica che sto salendo velocemente. Il Leonardo da Vinci è vicino, posso vederlo nella semioscurità a circa trecento metri da me. Ma controvento è irraggiungibile.
Ho appena preso una corrente ascensionale molto vigorosa, che mi ha trascinato in pochi secondi a quattrocento metri di quota anche se lottavo per scendere, e lo scarroccio verso Ovest è del tutto incontrastabile. L’unica possibilità è atterrare dove capita. Se ci riesco. Anche se il tramonto è fra una quarantina di minuti, ormai c’è poca luce e si fatica a individuare i dettagli del terreno.
Se voglio scendere devo ridurre motore. Ma per poter controllare il delta, già ai limiti della stabilità per le continue raffiche, devo avere un po’ di velocità. Così, per tirare la barra il più possibile, sono persino inarcato sul sedile e spesso trattengo il fiato per portare ancor di più la barra al petto e acquistare un po’ d’abbrivio. Funziona: pian piano perdo quota, anche se raffiche più forti, ogni tanto, mi riportano a guadagnare metri. Mentre sto scrutando il suolo, per decidere dove tentare l’atterraggio, comincia a piovere. Ma, data la velocità dell’aria, sulla visiera del casco l’acqua sfila senza creare troppi problemi di visibilità.
Adesso sono sopra un’area di risaie. Quasi tutta la Lomellina è coltivata a riso, ma ci sono anche molti pioppeti, l’ultimo posto dove finire. Atterrare in una risaia, che in questa stagione non sono ancora allagate, vorrebbe dire capottare quasi certamente: il terreno è fradicio per le piogge dei giorni scorsi e il carrello si pianterebbe quasi subito nel fango. Inoltre c’è il rischio di impattare negli argini, poco visibili con la scarsa luce disponibile, e le stoppie del vecchio raccolto sono come tanti spuntoni minacciosi. Grazie a dio individuo quasi subito, nella direzione dove mi sta portando il fortunale, quel che mi sembra un bel prato verde. Cerco di arrivarci e non è semplice. Più mi avvicino al suolo più aumenta l’intensità dei rotori. Faccio molta fatica a tentare di raddrizzare, ogni volta, la vela che subisce colpi incredibili mentre i cavi di controventatura sibilano feroci sotto ogni raffica: temo che una folata più forte delle altre finisca per spezzare qualcosa. Anche la pioggia, ormai torrenziale, non facilita le manovre.
Sono riuscito a scendere a una quota di una cinquantina di metri, l’attenzione è massima, non ho neppure l’attimo per guardare l’altimetro quando vedo un palo. Controllo rapidamente il resto del terreno e vedo anche la fila degli altri: una linea elettrica, della quale è impossibile distinguere i fili, taglia il prato proprio trasversalmente. Devo cambiare obiettivo: mi basta allentare appena la pressione sulla barra per guadagnare in un attimo almeno una trentina di metri di quota. E perderne un centinaio lateralmente.
Ci sono una strada, un canale, una risaia, un’altra risaia, filari di alberi, un fosso, un prato troppo piccolo, una stradicciola e poi, finalmente, un campo di grano che sta germinando. Abbastanza vasto da permettere un atterraggio verso qualsiasi direzione. Sembra un miraggio, l’ultima possibilità, visto che più avanti ci sono altre risaie, pioppeti e sa iddio quale altro pericolo. E poi devo andar giù in fretta, visto che assieme alla pioggia sempre più sferzante adesso cade anche grandine. Per minimizzare i rischi in atterraggio dovrei capire da quale parte arriva il vento, ma è impossibile: continua a girare e non si individua, al suolo, qualcosa che sbatacchiando ne indichi la direzione: in lontananza si vedono solo filari di pioppi piegati dalla furia del temporale. Adesso c’è più grandine che pioggia e mi sembra di sentire dei colpi sulla struttura e persino nell’elica: come se una banda di ragazzini, che camminano sul marciapiede, facessero scorrere decine di bastoni contro le sbarre di una cancellata. Ma con rumore meno regolare.
Sempre vacillando e pencolando continuo a scendere. Ma quando arrivo abbastanza vicino al suolo è un problema far capire al delta che deve posare il carrello invece di sbattere a terra l’estremità di un’ala, mentre sta ancora volando. Così sono costretto a cabrare per evitare il pericolo, poi devo lottare per raddrizzare il mezzo, sperare di non finire in un nuovo rotore, e reimpostare la manovra. Che, dopo non so quanti tentativi, finalmente riesce.
Appena fermo al suolo mi rendo conto della potenza del diluvio. Volandoci dentro si percepisce la violenza del vento, della grandine e della pioggia in modo quasi attenuato. Una volta fermi al suolo cambia tutto: finalmente sono a terra, ma i problemi non sono finiti. Con la velocità di un gatto stacco i contatti del motore e sgancio la cintura di sicurezza; temo che il vento ribalti il mezzo, magari più e più volte, con il sottoscritto insalamato sul sedile. Come veicolo terrestre un deltaplano fa pena: è goffo ed esageratamente sensibile al vento. Anche se ci metto tutta la mia forza per impedirlo, l’energia del temporale mi piega la vela che avevo già inclinato per contrastare il vento e l’ala sinistra appoggia l’estremità al suolo. Da un certo punto di vista è bene: la bufera non mi solleverà, ma temo per l’ala che deve sopportare una pressione di quintali e quintali di pioggia e vento.
Se abbandonassi il posto di pilotaggio il delta verrebbe travolto dalle raffiche: le folate più potenti lo fanno arretrare di un paio di metri ogni volta. Vedo le tracce delle ruote all’atterraggio: ci sono solchi per non più di tre o quattro metri di rullaggio. Sono sceso come un ascensore.
Tolgo il casco e, stando in ginocchio sul sedile, riesco a metterlo sul filtro dell’aria, per impedire che penetri troppa acqua nel carburatore. Poi recupero il telefono dalla tasca della tuta. Il rumore della bufera, gli scrosci di pioggia e grandine che colpiscono le ali e i tuoni sempre più forti e numerosi, provocano un frastuono d’inferno. Chiamo Andrea al campo volo e mi sembra di capire “numero non raggiungibile”. Compongo quello di Maurizio di Motodelta e anche in questo caso risponde una voce metallica.
Mi accorgo di avere sei chiamate senza risposta: sia Andrea che Maurizio mi hanno fatto telefonate che non ho sentito. Probabilmente sono preoccupati per la mia sorte. Mi piacerebbe rassicurarli subito: non ho avuto la peggio, sto bene. Sono solo una patetica figura grottesca che, all’imbrunire, lotta per tener fermo un deltaplano nel fango di un campo, sotto un fortunale.
Finalmente uno squillo: spiego velocemente ad Andrea l’accaduto e come localizzarmi a terra. Spero abbia capito perché non sento quasi nulla di quel che mi dice. Un lampo accecante e il tuono immediato e fortissimo mi danno uno scrollone: evidentemente il fulmine deve essere caduto vicino, davvero molto vicino, visto ho preso una scossa poderosa, soprattutto nel piede appoggiato a terra, nonostante calzi stivaletti con suola in gomma e solette in neoprene. Sono preoccupatissimo: dovrei essere abbastanza al riparo dal pericolo di fulmini, visto che adesso sono appoggiato solo sulle ruote, ma il diluvio che fa scorrere rivoli continui fino a terra e, soprattutto, la torre metallica che sovrasta l’ala e sembra un perfetto parafulmine nel centro di un campo, non mi lasciano per nulla tranquillo.
Ancora una volta devo decidere. Mi metto al sicuro dai fulmini e lascio che il fortunale mi distrugga tutto… o tengo duro? Fra un po’ qualcuno dovrebbe arrivare…
Sono già qui!
Due fari stanno imboccando la stradina sterrata che viene nella mia direzione. È un’auto che non riconosco e si ferma ad un centinaio di metri da me. Come mai non scende nessuno? Io non posso muovermi; spesso, sotto le raffiche, il carrello solleva addirittura una ruota e mi tocca spostare il mio peso per tenerla a terra, come fossi al trapezio di una barca a vela.
Squilla il telefono, ormai a corto d’autonomia; il freddo deve aver contribuito a scaricare la batteria. E tra scrosci e tuoni, stavolta, non riesco neppure a capire chi sia.
Ma cosa fanno in quella dannata auto? Arriva un sms: leggo febbrilmente. Però è solo un inutile messaggio di Vodafone: che tempismo; preferirei una cioccolata calda.
Finalmente si spalanca una portiera e dall’auto scende una ragazza: apre un ombrello che viene immediatamente rivoltato dalla violenza del vento e poi strappato e reso inservibile da altre raffiche. Si guarda intorno e inizia comunque a muoversi nella mia direzione, correndo tutta piegata in avanti sotto le raffiche. Dopo pochi passi sparisce, per ricomparire un attimo dopo con i jeans impantanati fino alle ginocchia: è finita in un fosso. Si lancia attraverso il campo per fermarsi, completamente fradicia, a qualche metro da me. Forse non sa come avvicinarsi di più, intimorita da quell’accozzaglia di tubi, tela e cavi che vibrano e sibilano nel vento.
«Ha bisogno di aiuto? È ferito? Perché non scende?» grida, ma gentilmente.
Spiego, ma se n’è già resa conto da sola, che sto bene, ma che non posso muovermi perché altrimenti il vento trascinerebbe via il delta. «La ringrazio per la sua premura, ma dovrebbero arrivare alcuni miei amici a darmi una mano» urlo in risposta, sfoggiando il miglior sorriso che riesco a mettere assieme. «Questione di minuti» sostengo, senza riuscire a nascondere che è più che altro una speranza.
«L’abbiamo vista in volo dalla provinciale e ci siamo molto spaventati, pensavamo che il temporale la strappasse via. È un miracolo che sia riuscito ad atterrare incolume».
«Effettivamente ho dovuto richiedere l’assistenza dell’angelo custode di riserva, quello delle occasioni speciali -tento di scherzare- e, come vede, è tutto a posto. La ringrazio molto per la sua premura, ma non stia ancora qui sotto l’acqua, è inutile inzupparsi in due».
Ci salutiamo con un cenno e ritorna sui suoi passi. Con calma, visto che ormai è completamente fradicia.
Dopo un po’ l’auto se ne va, mentre la furia del temporale comincia ad attenuarsi. Per agevolare i miei soccorritori, che prima o poi arriveranno, dovrei spostarmi verso il bordo del campo. Poiché non riuscirei mai a spingere il delta tra le zolle soffici e fangose, tento di metterlo in moto. Controllo la pompa del carburante, aria, contatto… al quarto strattone finalmente il motore parte, un po’ borbottando, ma senza troppi problemi. Evidentemente il casco ha impedito grosse infiltrazioni d’acqua nel carburatore. Con i giri al massimo, perché le ruote affondano nella terra fangosa quasi fino al mozzo, inizio a muovermi e arrivo al bordo del campo, proprio mentre giunge un altro sms. È il mio amico di Paullo che scrive: “Sono rimasto a terra perché da me oggi c’era vento. Tu hai volato?”. Non posso resistere dal rispondere e digito “Ma va’ a cagare!”.
Un attimo dopo ecco due paia di fari.
Arrivano Maurizio e Andrea. Adesso comincio a sentirmi meglio.
Per prima cosa orientiamo l’ala al vento. Poi la stacchiamo e l’adagiamo al suolo. Ora non c’è più pericolo.
La prima ipotesi di ripartire appena cesserà il temporale è presto abbandonata, visto che si attenuano i lampi e le raffiche di vento, ma continua una pioggia abbondante e, soprattutto, il mezzo è certamente danneggiato. Inoltre è ormai quasi buio e nei paraggi non individuiamo uno spazio adatto al decollo.
A malincuore, dopo aver sistemato tutto il meglio possibile, abbandoniamo il delta alla notte.
Il recupero avverrà dopo una dozzina d’ore, in una mattinata splendida di sole. Il velivolo ha avuto problemi alle stecche delle ali e soprattutto all’elica, danneggiata dalla grandine. Rimarrà una settimana in officina per un controllo minuzioso e la sostituzione di alcune parti.
Scopro, già nel pomeriggio, che per tutti i piloti, e non solo nel mio campo visto che le voci corrono, sono quello che è finito in un temporale. E può raccontarla.
Non ho mai capito se il fatto sia valutato con ammirazione o commiserazione. O un misto di entrambe.

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